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lunedì 31 marzo 2014

GIUSEPPINA DURANDO TERZIARIA FRANCESCANA .



GIUSEPPINA DURANDO 
Terziaria Francescana 
Torino 19 Febbraio 1848 – 4 Aprile 1915 


Inquadramento storico 
Giuseppina Durando nacque a Torino il 19 febbraio 1848, un anno carat­terizzato da numerosi eventi storici che segnarono l'età risorgimentale. Il 1848, infatti, iniziato tra agitazioni e fermenti rivoluzionari scoppiati soprattutto in Francia e nell'Impero austro-ungarico, determinò in Italia l'insorgere delle famose "Cinque giornate di Milano" contro il governo austriaco; la concessione in Piemonte da parte di re Carlo Alberto dello "Statuto", ossia di una legge che garantiva alcuni fondamentali diritti, come la libertà di associazione e di stampa; lo scoppio della seconda guerra di indipendenza contro l'Austria, che si concluse negativamente l'anno successivo con la battaglia di Novara. 
Infanzia e adolescenza 
Battezzata dunque in quel 1848, pochi giorni dopo la nascita, nella Chie­sa Cattedrale di San Giovanni Battista, Giuseppina Durando crebbe buona e generosa d'animo, ma delicata e debole di salute. Malaticcia fin dall'infanzia, trascorse parte della sua adolescenza nella casa paterna di Viù. Qui, secondo alcune testimonianze dei paesani, quando usciva di casa era accompagnata da un misterioso cane sempre pronto a proteg­gerla, che poi improvvisamente spariva quando lei rientrava tra le mura domestiche.  
Spiritualità di Giuseppina Durando 
Tornata a Torino, a ventun anni Giuseppina cadde gravemente ammala­ta in seguito a frequenti sbocchi di sangue. Ricoverata per tre lunghi mesi in ospedale, improvvisamente un giorno guarì. Ristabilitasi, trovò lavoro presso una sartoria, ove si distinse tra le compagne per le sue doti di umiltà e di bontà, che ispiravano confidenza e fiducia. Dopo la morte del padre, Giuseppina lasciò la famiglia e si recò a vivere dapprima in una piccola soffitta di via dei Fiori, presso la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e poi in via San Quintino, di fronte alla Chiesa dei Santi Angeli Custodi. Trascorreva il suo tempo fra il lavoro e la pre­ghiera, soprattutto di Adorazione Eucaristica. Fu in questi anni che divenne Terziaria Francescana. Nella chiesa di San Tommaso, officiata per circa quattro secoli dai francescani, incontrò le sorelle Teresa e Giuseppina Comoglio, anch'esse iscritte al Terz'Ordine di San Francesco, con le quali intrecciò una affettuosa amicizia contrasse­gnata da intensi momenti di vita spirituale. Con loro iniziò a pregare a lungo nella cappella di Nostra Signora del Sacro Cuore, interna alla Chiesa di San Tommaso, ove è tuttora venerata una statua della Madonna solennemente incoronata nel 1880 dall'arcivescovo di Torino mons. Gastaldi. La devozione alla Madonna del Sacro Cuore era cominciata nel 1854 in Francia, a Issoudun, una cittadina della diocesi di Bourges. Qui, due giovani sacerdoti avevano iniziato a pregare la Madonna affinché li aiutasse a fondare una congregazione di "Missionari del Sacro Cuore di Gesù". L'aiuto divino venne, e la Vergine fu eletta Patrona e Protettrice della nuova associazione che, nel giro di pochi anni - precisamente nel 1864 -, innalzò a Nostra Signora del Sacro Cuore un Santuario che diven­ne rapidamente centro di un'intensa devozione. Introdotto in Italia, il culto di Nostra Signora del Sacro Cuore fiorì in modo particolare proprio a Torino, nella chiesa Francescana di San Tommaso. Qui, nel 1899 venne eretta una cappella laterale, coronata da splendide immagini di angeli e santi, nella quale fu solennemente collo­cata la statua della Madonna che stringe tra le braccia il Bambino Gesù, sul cui petto brilla il Sacro Cuore. Intorno a questa bella statua della Vergine - che i torinesi iniziarono a chiamare "Madonna dei disperati" proprio per le tante insperate grazie ricevute per sua intercessione, grazie testimoniate dai numerosi ex-voto a forma di cuore che "tappezzano" la volta della cupola dell'altare -sorse ben presto una confraternita, cioè un'associazione di fedeli desi­derosi di rendere omaggio alla Vergine con le preghiere e la frequente partecipazione all'Eucaristia. In questa cappella si trovavano spesso a pregare Giuseppina Durando e le sorelle Comoglio, come pure Paolo Pio Perazzo, il "ferroviere santo" (1846-1911). Quest'ultimo, accanto alla sua attività di capostazione a Porta Nuova, svolse nella sua vita un'intensa azione di apostolato eucaristico, facendosi animatore di Congressi Eucaristico-Mariani e fondando - sempre nella chiesa di San Tommaso, ove il suo corpo è tuttora sepolto presso l'Altare del Crocifisso - l'arci-confraternita dell'Adorazione quotidiana. Essa continua ancora oggi a radunare fedeli convinti che «nell'adorazione eucaristica - come si legge in un recente bollettino dell'arciconfraternita stessa - il cristiano apprende il modo di esplicare il suo umile e silenzioso servizio a Dio e ai fratelli». Oltre che a San Tommaso, Giuseppina Durando era solita pregare anche nella chiesa di Santa Maria di Piazza, dove si recava animata dagli stessi desideri di san Pier Giuliano Eymard: da una parte rendere gloria a Cristo, Signore dell'universo; dall'altra vivificare il prossimo nel contat­to con la sua presenza. Senza dubbio, ella conosceva e aveva meditato a fondo le seguenti parole del santo, pubblicate dai padri Sacramentini nei loro bollettini mensili: «Adorare è l'atto più grande... Adorare è par­tecipare alla vita dei Santi del Cielo, che lodano, benedicono la bontà, l'amore, la gloria, la potenza dell'Agnello immolato per la salvezza degli uomini e la gloria di Dio... Adorare è l'atto sovrano che da sé solo sosti­tuisce gli atti di tutte le virtù, possiede la virtù di tutte e ne è il fine». Così, un giorno, mentre pregava intensamente dinanzi al SS. Sacra­mento, Giuseppina ricevette l'ispirazione di accettare la proposta che poco tempo prima le era stata fatta da un anziano signore, anch'egli ado­ratore eucaristico, di andare a vivere in una sua piccola proprietà alla Crocetta, precisamente al n. 29 di corso Peschiera. Incoraggiata anche dalle parole di Giuseppina Comoglio, ella accettò la proposta di questo signore, Alberto Bonifacio, un ex-capitano dell'esercito in pensione, e si trasferì nella sua nuova abitazione. Qui, ben presto fu conosciuta come "la santa della Crocetta", per il molto bene che fece in tutti gli anni in cui visse in questo quartiere della città. Venute a conoscenza della sua vita di preghiera e sacrifici, molte per­sone, soprattutto ammalate, cominciarono a recarsi da lei per ricevere conforti sia fisici che spirituali. Giuseppina aveva per tutti parole di con­solazione e, grazie ad un dono particolare del Signore, riusciva a dia­gnosticare perfettamente diversi tipi di malattie, per le quali suggeriva opportuni rimedi, tanto che si verificavano numerose insperate guarigioni. La sua fama crebbe tanto che dalle circostanti campagne cominciaro­no anche a venire contadini che le portavano i loro animali ammalati, affinché li guarisse. Caritatevole verso tutti, Giuseppina non si stancava di prodigarsi per il bene di tante persone di ogni condizione sociale: molti poveri, ma anche nobili e religiosi, che ricevevano da lei parole di conforto e di consolazione. 
Le "bandiere eucaristiche" 
All'inarca a partire dal 1913, in seguito ad un incidente al ginocchio destro che le immobilizzò completamente la gamba, Giuseppina non potè più recarsi quotidianamente nella sua parrocchia - la Beata Vergine delle Grazie della Crocetta - per ricevere la comunione quotidiana. Il Signore, però, la consolò in un modo particolare, facendole ogni giorno il dono mistico di una intensa comunione spirituale, a proposito della quale Giuseppina scrisse: «Quando innanzi all'immagine del SS. Sacra­mento faccio la santa comunione spirituale, sento la particola in bocca come quando la ricevo alla balaustra». Sempre più immersa nel mistero eucaristico "Sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale" - come si può leg­gere oggi nei testi del Concilio Vaticano II -, Giuseppina Durando aveva già ben compreso che in esso è racchiuso - per usare ancora alcune espressioni dei testi conciliari - «tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua Carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti ad offrire assieme e Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create». Consapevole del fatto che, partecipando a questo banchetto di comu­nione fraterna che rinnova l'opera della nostra redenzione, si viene intro­dotti in tutta la profondità del messaggio cristiano e si è in grado di vive­re in modo assai singolare la meravigliosa esperienza dell'amicizia con Dio, Giuseppina radunava nella sua casa altre persone, desiderose di vivere un'autentica vita cristiana. Intorno al 1913, nel corso delle sue intense preghiere (che avveniva­no spesso in comunione spirituale con le sorelle Comoglio, ormai morte, entrambe in fama di santità), Giuseppina - sofferente nel fisico, ma arricchita sempre più da grazie spirituali - ricevette l'ispirazione di realizza­re cinque "bandiere eucaristiche" - come cinque sono i continenti - al fine di meglio diffondere il culto del SS. Sacramento. Rivoltasi così ad una pia giovane - Clara Borello, anch'essa Terziaria Francescana e Guardia d'Onore del SS. Sacramento - affinché eseguisse materialmente i lavori di ricamo necessari alla realizzazione delle ban­diere, Giuseppina Durando, nei due mesi che le rimasero ancora da vivere, dedicò tutta se stessa a far conoscere i simboli eucaristici che, per Ispirazione Divina, volle che fossero rappresentati sulle cinque bandiere. Fece poi dono della prima bandiera alla sua parrocchia della Crocetta, mentre offrì la seconda alla chiesa di San Tommaso, sede del-l'arciconfraternita dell'Adorazione quotidiana. Donò la terza alla chiesa di Santa Maria dì Piazza ove aveva sede l'associazione degli Adoratori notturni, che di lì a pochi anni - precisamente tra il 1920 e il 1925 -sarebbe stata intensamente frequentata dal giovane beato Pier Giorgio Frassati. La quarta e quinta bandiera furono infine donate rispettivamen­te alla cattedrale di San Giovanni Battista e alla chiesa del Sacro Cuore di via Nizza, officiata dai Padri Cappuccini. 1915: l'anno della morte di Giuseppina Dopo aver realizzato queste cinque creazioni simboliche, nate dalle sue profonde preghiere, Giuseppina Durando, sempre più provata dalle sof­ferenze fisiche, cominciò ad avviarsi verso la fine della sua vita, che fu stroncata da una polmonite il giorno di Pasqua: il 4 aprile 1915. Le sue spoglie, venerate nei primi anni dopo la sua morte da ammi­ratori e beneficati, riposano ancora oggi nel cimitero generale di Torino. 

Autrice: Carla Casalegno – da Santi e Beati 





LAUS  DEO 

Pax et Bonum 


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

sabato 29 marzo 2014

VENERABILE PADRE GIOACCHINO LA LOMIA SACERDOTE CAPPUCCINO .




PADRE GIOACCHINO LA LOMIA 
Venerabile 
Sacerdote Cappuccino 

In questi tre verbi e tre aggettivi si compendia tutta la vita del Venerabile Cappuccino canicattinese che tutti considerano Santo e che presto, ci auguriamo, possa assurgere agli onori dell’altare. Chi era Padre Gioacchino al secolo Gaetano La Lomia? Perché fa tanto parlare di sé? Cosa ha fatto per meritare la santità? Ecco la risposta a questi interrogativi: Gaetano La Lomia nacque in una famiglia nobile il 03 marzo 1831 da Nicolò e da Donna Eleonora. Fu battezzato nella Chiesa Madre dal Reverendo Don Biagio Salamone. I suoi padrini furono don Emanuele La Lomia e donna Carolina La Lomia, figlia del barone Agostino. La mamma, ammalata, non potè allevarlo quindi fu necessario affidarlo ad una balia, comare Giuvannuzza, la quale lo curò amorevolmente. In famiglia lo chiamavano Gaetanino. Ebbe un bravo maestro di cui non c’è dato conoscere il nome. “Trascorse la sua infanzia amando Dio e il prossimo. La carità, virtù del cuore, scaturiva dal suo animo naturalmente inducendolo ad operare generosamente” così come scrive Pietro Candiano in “Padre Gioacchino La Lomia”. Gaetanino, come scrivono i suoi biografi, sin dall’infanzia, si distinse per il suo amore che , un giorno, Lo spinse a distribuire ai poveri la carne che un suo vicino di casa, Calogero Lattuca, aveva messo a cuocere prima di uscire da casa. Più volte fu scoperto a trafugare qualche pane ai bottegai e sempre per aiutare gli indigenti. Gaetano La Lomia, il futuro Padre Gioacchino, è ricordato dai suoi contemporanei come un vero Angelo Consolatore dei poveri; essi andavano a trovarlo a casa ed a tutti dispensava comprensione, amore ed un segno tangibile della sua generosità. Il venerabile Cappuccino nacque in una famiglia agiata dove non potevano mancargli distrazioni e divertimenti e non poteva avere preoccupazione alcuna per il suo avvenire; i beni materiali di questo mondo, però, non avevano importanza per Lui; nel suo cuore maturava qualche cosa di veramente importante. Era la vocazione. Dio lo chiamava, voleva servirsi di questo giovane per farne un Gigante della Fede, un Messaggero di pace ed amore. Il padre Lo mandò a Palermo per farlo distrarre, ma tutto si rivelò inutile. Nel 1851 il Cappuccino Padre Michele da San Cataldo, con altri confratelli, venne a Canicattì per una serie di conferenze; il giovane Gaetano, dopo aver ascoltato le loro prediche, passò tre giorni chiuso nella sua stanza a pregare e poi, dopo una profonda meditazione, disse alla madre:” quei Religiosi hanno abbandonato tutto, servono Dio e si conquistano il Cielo”. Seguì i Cappuccini e raggiunse, a piedi, Caccamo dove sostenne gli esami per poter essere ammesso nell’Ordine Francescano. A Girgenti compì il noviziato assumendo il nome di Fra Gioacchino Fedele e vestì il saio francescano. A testimonianza della sua immensa gioia ebbe a scrivere: “ora sono religioso. D’ora in poi quindi devo pensare da religioso; vuol dire pensare alla grazia singolare che Iddio mi ha fatto, togliendomi da mezzo il mondo, per servirlo nella sua casa che è la Religione. Pensare a miei peccati, sempre, piangerli, per placare la Divina Giustizia. Fuggire il male ed operare il bene. Non mai parlerò delle cose di questo mondo, ma sempre parlerò delle cose di Dio; per la gloria ad edificazione del prossimo, procurerò con tutto lo zelo la conversione dei peccatori. Farò sempre opere buone e studierò di essere uno specchio di virtù con le parole, con le opere e di essere di buon esempio a tutti.” Il giovane Gaetano sinceramente , dopo profonda riflessione, ha dato il suo definitivo ed irrevocabile addio al mondo rispondendo alla chiamata del Signore: “ ECCOMI!”. Volle seguire il Poverello d’Assisi; nella povertà trovò la vera ricchezza e fece, così, la sua scelta con gioia, senza rimpianti, senza titubanze. Con questa decisione chiudeva per sempre le porte al mondo, alla sua vanità, ai divertimenti, alle ricchezze e alla vita comoda. Con quell’ “ECCOMI” pronunciato con fermezza e con gioia scompariva l’aristocratico Gaetano e nasceva il Cappuccino povero ed umile ma ricco di fede, di quella fede che spalanca le porte del Paradiso. Canicattì, nel momento in cui perdeva il giovane aristocratico, guadagnava un valido Avvocato presso il Trono di Dio. Dopo il noviziato fu mandato a Naro per iniziare gli studi, poi a Castronovo ed infine a Palermo dove ebbe la guida di padre Luigi da Termini Imprese. Pietro Candiano ci presenta Fra Gioacchino come un chierico esemplare: “Modesto nonostante la nobile origine, era felice quando poteva compiere una buona azione, anche privandosi del necessario. E’ preparò l’animo alle grandi imprese, spinto dal suo amore ardente di carità. Aiutava il prossimo con tenerezza e sapeva porgere con una grazia ineguagliabile.” Intanto maturavano i tempi per la tanto agognata ordinazione sacerdotale. Il 2 marzo 1855, nella Basilica della Magione, a Palermo, ricevette la tonsura ed i quattro ordini minori ed, infine, il 2 giugno dello stesso anno fu sacerdote, potè celebrare la sua prima messa tra l’emozione dei presenti, i quali rimasero colpiti dal suo entusiasmo, dal fervore e dalla sua indescrivibile felicità. L’umiltà e lo spirito di sacrificio furono le doti che contrassegnarono la missione sacerdotale di Padre Gioacchino. Egli uniformò la propria vita a tre “U“: Ubbidienza, Ubbidienza, Ubbidienza. Sacrifici, privazioni, penitenza, cilizi caratterizzarono la sua esistenza che fu un continuo calvario. Di Lui scrive Pietro Candiano: “ Magro, scarno, pallido, martirizzò il suo corpo con lunghi digiuni ed aspri cilizi, mettendo a dura prova la precaria salute. Dormiva sulla nuda terra (per cuscino aveva una tegola) trascorrendo in preghiera le notti insonni. Dalla pratica costante della virtù scaturì un sentimento amoroso verso i bisognosi che ne regolò la vita integerrima; la vita di un Santo!”. A questo punto per meglio poter mettere in risalto le virtù veramente eroiche del Venerabile Padre Gioacchino, reputo opportuno riportare quanto scrive il suo biografo, Padre Giuseppe M. Raimondi dei Frati Minori, il quale ci presenta un suo fedele ritratto:” Sul suo labbro doveva comparire quel sorriso gentile che fu poi sempre il segno caratteristico dell’ingenuo fraticello e che lo diceva lontano dalle tempeste della vita. Sulla sua fronte doveva lampeggiare la luce della serenità dell’animo, che doveva in appresso farlo vedere tutto e sempre assorto in una visione di bellezza infinita, visione che lo sollevava e lo avvolgeva in un sentimento di tenerezza indicibile”. Nel 1861 fu destinato a Caltanissetta per completare gli studi filosofici e ricevette la pagella di predicatore. Si rivelò un grande oratore capace di trascinare le folle e di operare conversioni. Sapeva parlare al cuore degli ascoltatori. A piedi si spostava da un paese all’altro ed ovunque veniva accolto con gioia ed acclamato come un Santo. A completare la sua missione sacerdotale mancava ancora la facoltà di confessare che gli venne conferita dal Vescovo di Caltanissetta Mons. Giovanni Guttadauro il 3 gennaio 1862. Tale facoltà Gli consentì di esercitare la funzione più importante del suo ardente apostolato e Lo rese un vero maestro di vita. Trascorreva intere giornate nel confessionale ad ascoltare, consigliare, consolare e convertire. Il suo sogno era la vita di missione, desiderava ardentemente di fare il missionario per portare la luce del Vangelo tra coloro i quali non avevano mai sentito parlare di Gesù. Il 27 giugno 1864 andò a Roma presso l’Istituto San Fedele ed infine in Corsica per prepararsi alla vita di missione. Ritornò a Roma per apprendere la lingua portoghese. Superate alcune difficoltà, il 13 gennaio 1868, dalla Sardegna, si imbarcò per il Brasile dove il Prefetto Apostolico e Commissario Generale per le missioni, Padre Gaetano da Messina, lo nominò cappellano militare della Guardia Armata dell’Esercito brasiliano mentre infuriava la guerra contro il Paraguay. Pietro Candiano scrive: “nel suo incarico di cappellano militare rifulse la virtù del padre Gioacchino e la completa dedizione all’Onnipotente: medico, consigliere, ma principalmente sacerdote. Si faceva capo a Lui come ad un padre. Tutti nutrirono per Lui una profonda venerazione ed una affettuosa ammirazione.” Era sempre presente dove più sanguinosa infuriava la battaglia e sempre pronto a confortare i feriti ed a benedire i morenti. Per la sua completa dedizione nell’espletamento della sua missione, conseguì la nomina a Maggiore, gli fu concessa la medaglia d’argento al valor militare e la medaglia generale della campagna del Paraguay con decreto n. 4560 del 6 agosto 1870 di cui trascrivo il testo: “ Compete all’ex cappellano Alfiere di Commissariato Missionario Cappuccino, fra Gioacchino da Palermo, l’uso della medaglia della campagna del Paraguay, nella forma del citato decreto, con la fascetta d’argento, portante la data di tempo in cui servì nell’esercito che operò contro il governo della repubblica del Paraguay. Dipartimento dell’Aiutante Generale, ammesso alla Segreteria di Stato per gli Affari di guerra, 16 agosto 1876. Barone di Gavia.” In Brasile riuscì a salvare dalla fucilazione un ufficiale che si era reso responsabile d’un grave delitto. Questo fatto è la testimonianza della venerazione di cui godeva presso le massime autorità di quel paese. L’Imperatore Don Pedros II° d’Alcantara, durante il suo viaggio in Sicilia , venne a Canicattì e visitò la madre di Padre Gioacchino e Le parlò del figlio in modo abbastanza lusinghiero. Il Brasile gli diede la possibilità di poter seguire e servire Gesù come lui ardentemente desiderava e amarlo nei poveri. Fu mandato a San Paolo per convertire i selvaggi. Si concretizzava così il sogno vagheggiato dall’Umile Cappuccino che si presentò loro cantando e suonando un tamburo per invitarli alla preghiera. Essi furono conquistati dall’atteggiamento fraterno di Padre Gioacchino , lo seguirono e ricevettero il suo abbraccio, la sua benedizione e furono evangelizzati. La vita di missione durò dodici anni; il 14 gennaio 1880 dovette interromperla perché le sue precarie condizioni di salute non gli consentivano di continuare quindi, accettando per ubbidienza l’invito del Prefetto Apostolico di Rio de Janeiro, si preparò, molto a malincuore, a fare ritorno in Italia. Quando s’imbarcò per lasciare il Brasile proruppe in lacrime per il dolore di dover abbandonare gli Indii i quali Lo veneravano come un Santo ed erano accorsi a salutarLo dal molo. Mentre la nave si inoltrava nell’Oceano infinito, Egli rivedeva, con gli occhi del suo immenso amore per il prossimo, i suoi selvaggi che aveva evangelizzato, le loro povere capanne e pianse per il dolore di doversene allontanare. Giunto a Roma il primo giorno di aprile del 1880, fu ospite del convento dei Quattro Martiri e apprese dal nipote Nicolò La Lomia la dolorosa notizia della morte della madre avvenuta il 15 marzo 1879. Dopo pochi giorni fece ritorno a Canicattì. Alla stazione ferroviaria che allora era a Bivio, vicino la chiesa della Madonna dell’Aiuto, fu salutato da un’enorme folla che Lo considerava santo. Andò ad alloggiare nella casa natale dove, ogni giorno, riceveva un gran numero di fedeli; tutti gli chiedevano la benedizione e preghiere per ottenere grazie .Predicò nella chiesa di San Diego e le sue parole lasciarono un segno indelebile nel cuore di molti fedeli. Evitava di uscire perché molte persone lo seguivano e fu, perciò, accusato di perturbare l’ordine pubblico. Fu necessario l’intervento dei carabinieri per evitare disordini allorché Padre Gioacchino partì per Messina. I fedeli canicattinesi e dei paesi vicini si erano opposti alla sua partenza. A Sortino svolse le funzioni di maestro e di esaminatore dei novizi delle tre province cappuccine della Sicilia. Padre Gioacchino non si limitò a predicare il Vangelo, ma lo visse e ciò possiamo rilevarlo da un suo scritto: devo fuggire le conversazioni dei mondani, devo essere il loro Angelo tutelare; togliere le discordie, le inimicizie, apportare pace alle famiglie.” Il suo biografo, Padre Vincenzo Sena, raccontava che Padre Gioacchino andava nelle case in cui regnava l’odio, si frapponeva fra coloro i quali litigavano anche con le armi in pugno e la sua presenza carismatica riusciva a disarmarli ed a far tornare la pace e l’amore dove aveva regnato l’odio. Monsignor Domenico Turano, vescovo di Girgenti, che lo aveva in grande considerazione, il 14 aprile 1881 consigliò Padre Giacomo Cusmano, gravemente ammalato, di rivolgersi a padre Gioacchino per la guarigione, con la lettera che qui di seguito trascrivo: “ c’è un buon frate semplice e pieno di doni in Canicattì; ora gli scriverò per pregare per te, perché tu ami meglio andartene in paradiso, ma per noi e pe’ i poverelli di Gesù Cristo….” Dopo alcuni giorni, è sempre Mons.Turano che scrive: “ il buon frate cappuccino semplice prega per te; egli ha il dono dei miracoli, e ne farà qualcuno per te che vuol dire per tutti noi.” Le preghiere dell’Umile Cappuccino furono esaudite e padre Cusmano guarì. Padre Gioacchino ed il suo confratello Padre Fontana si adoperavano per fondare un convento nella nostra città, sul poggio dove, nel 1851, i Cappuccini avevano innalzato una Croce in occasione di una missione, nello stesso luogo in cui sorgeva una chiesetta nella quale, come scrive Padre Agostino Gioia in “ Canicattì città dell’Immacolata” si venerava Maria Santissima della neve e dedicata alla Madonna della Rocca. Il Vescovo di Girgenti, Mons. Turano, fu favorevole alla fondazione del convento e il 27 dicembre 1880 concesse ai Cappuccini, in perpetuo, la chiesa della Madonna della Rocca. Tale concessione fu approvata dalla Santa Sede con decreto del 27 giugno 1884. Iniziati i lavori e costruite quattro celle Padre Fontana si recò a Sortino per invitare Padre Gioacchino a presenziare all’inaugurazione del convento che ebbe luogo nel 1882. Padre Gioacchino, intanto, dalla provincia monastica di Siracusa , si trasferì a quella di Palermo e con padre Fontana andò ad abitarvi. I locali erano umidi e privi di cucina; per alcuni mesi il vitto veniva preparato dalla madre di Padre Fontana. Per ampliare il convento si dovettero superare molte difficoltà e, con l’ammissione dei frati laici, si rese necessaria la costruzione della cucina e del refettorio. Nel 1887 Padre Gioacchino fu nominato fabbriciere della Provincia per la sua operosità. Intanto il suo amore verso il prossimo, la sua dedizione completa a Dio e la sua fama di santità richiamavano l’attenzione di tanta gente che da molti paesi della Sicilia veniva a Canicattì per incontrarlo e per implorare grazie. La sua parola confortava, leniva i dolori, risvegliava la fede in Dio. Raggiungeva ,a piedi, i paesi in cui andava a predicare; ovunque veniva accolto come Santo e compiva prodigi. Quando le chiese non riuscivano a contenere la folla, predicava all’aperto. Nelle annate di siccità, ai contadini che lo supplicavano di pregare per la pioggia, rispondeva che a Dio si doveva chiedere il pane e non la pioggia e malgrado la siccità, il raccolto era abbondante. Un giorno mentre tornava, a piedi, da Roccapalumba dove era stato a predicare, si fermò una carrozza ed il viaggiatore che lo aveva riconosciuto lo invitò a salire. Padre Gioacchino rifiutò umilmente l’invito: “ la regola non mi consente di viaggiare comodamente, San Francesco andava sempre a piedi; che direbbe la gente se mi vedesse viaggiare in vettura come un gran signore?” Nel momento in cui rifiuta l’invito del gentiluomo , Padre Gioacchino tocca l’apice della fedeltà alla Regola del Santo poverello di Assisi. Il viaggiatore, dottor Carlo Candiano, gli offrì venticinque lire per i poveri; Padre Gioacchino le accettò, tornò a Roccapalumba, radunò un gruppo di poveri e gliele distribuì. Alle anime buone Dio concede tutto. Molte persone si rivolgevano a Padre Gioacchino per chiedergli di intercedere presso l’Onnipotente in loro favore. Molti prodigi e miracoli Padre Gioacchino compì durante la sua vita. Un giorno gli portarono, su un carro, il Terziario fra Salvatore da Racalmuto perché lo guarisse. Padre Gioacchino, nel vedere tanta gente che lo supplicava, disse: Inginocchiamoci e recitiamo un Pater Noster e il Serafico Padre farà la grazia”. Mentre si pregava, il paralitico saltò giù dal carro perfettamente guarito e la folla, esultante, lodò San Francesco. Una donna, con tanta fede, supplicò Padre Gioacchino per la guarigione del figlio affetto da pazzia. Il Venerabile Cappuccino si avvicinò al malato e lo guarì. Un certo Alfonso Messana lo chiamò al capezzale della propria figlia moribonda: Il Santo Cappuccino pregò Dio Misericordioso e la ragazza guarì. Il padre, riconoscente, regalò al convento una mula che fu usata per trasportare il materiale necessario per il suo ampliamento. Un giorno mentre predicava a Palma di Montechiaro, un gruppo di marinai lo pregarono di benedire le loro barche perché, da molto tempo, la pesca era scarsa. Dopo la benedizione, i marinai pescarono molti pesci. Un povero fotografo, sordomuto, proveniente da Castelvetrano, non riusciva a trovare lavoro. Padre Gioacchino gli disse: “fa la fotografia a quest’orso; il pane non ti mancherà”.(L’orso era Padre Gioacchino). Fu la fortuna di quel povero fotografo. Le fotografie di Padre Gioacchino furono richieste da migliaia di fedeli. Un giorno una pattuglia di carabinieri a cavallo incontrò Padre Gioacchino che, a piedi, si recava a Butera. La loro meraviglia fu grande quando, al galoppo, giunsero a Butera e lo trovarono che predicava in piazza. Mi piace riportare quanto scrive il suo biografo, Padre Antonio da Stigliano: “mentre il Servo di Dio tornava a piedi da una missione, fu avvicinato da due suoi compaesani: Calogero Pirrara e Diego Agrò i quali si offersero di pagare il biglietto del treno da Grotte a Canicattì. Egli ringraziò e preferì continuare il viaggio a piedi. I due però per devozione, preferirono fare con lui la strada a piedi. Ad un certo punto il Padre Gioacchino invitò i due compagni di viaggio ad avviarsi per una scorciatoia piena di ciottoli. Quando furono alla contrada S. Giovanni, il Servo di Dio si fermò e, presi sotto braccio i due, disse: “ volete vedere, figlioli, come ci stringe forte l’amore di Dio?”. Strettili fortemente a sé, in men che si dica, si trovarono prodigiosamente presso la chiesa dei Frati Minori di Canicattì. Il Venerabile Cappuccino sapeva anche leggere nel futuro e tale è stato il caso di Vincenzo Munna, un bimbo di due anni affetto da una grave malattia. Lo prese in braccio, lo guarì e, consegnandolo alla madre disse: “ curalo bene questo tuo piccolo. Un giorno sarà un santo sacerdote”. La profezia si avverò infatti il bimbo da lui guarito divenne sacerdote salesiano e nel 1938 morì, martire in India. Padre Gioacchino si prodigava nell’amore verso il prossimo e nell’aiutare i bisognosi poiché, in ciascuno di essi, vedeva Gesù. Un giorno, incurante della pioggia torrenziale, andò a bussare alla porta della baronessa Lombardo per aiutare alcune orfanelle. Per amore di Gesù digiunava tutti i sabati e, per fioretto, non mangiava la frutta. Componeva versi per lodare il Signore e la sua Santissima Madre. “ Per tuo amore ogni cosa lasciai, mi donai al benigno tuo cuor” In questi versi si legge tutta la sua vita, la rinunzia agli onori ed alle ricchezze e la sua vocazione di donarsi totalmente a Dio. Grande era la sua devozione verso la Madonna; spesso diceva: “ Siate devoti di Maria, perché i devoti di Lei non vanno all’inferno”. “ Ti amo sempre in tutte l’ore, Ti amo ognora,ogni momento, Ti amo Madre del Signore Del tuo amor bruciar mi sento”. Con questi versi si rivolgeva alla Vergine Santissima e Le presentava il suo infinito amore. Le continue penitenze, la sua dedizione completa alla missione sacerdotale, fiaccarono la forte fibra di Padre Gioacchino. La sua ultima missione fu quella di Comitini che ebbe inizio il giorno 6 aprile 1903. Al ritorno da questa missione fu costretto ad osservare un regime di assoluto riposo a causa di gravi disturbi cardiaci. Il venerdì Santo del 1905, per l’ultima volta, predicò al Calvario durante la funzione della crocifissione di Gesù. In quella occasione disse al Padre Visitatore: “ Mio padre, questa predica che ho fatto è l’ultima; la fine si avvicina”. Nei primi giorni del mese di luglio dello stesso anno, il Dottor La Vecchia constatò che le condizioni di salute di Padre Gioacchino erano gravissime ragion per cui la sua fine era imminente. Il Santo Cappuccino, per nulla preoccupato, disse:” Per ora non muoio; per morire dev’essere qui presente il Padre Ignazio da Polizzi. Sabato poi attendo il mio confessore che non si trova in paese. Padre Gioacchino ebbe ragione, ogni cosa si avverò come lui aveva detto. Alla notizia della imminente fine, la gente accorse nella speranza di poterlo vedere e di poter ricevere, per l’ultima volta, la sua Santa Benedizione. Il 28 luglio si fece portare davanti alla finestra della sua cella per impartire la benedizione ai numerosi fedeli che assiepavano la piazzetta antistante il convento e le vie adiacenti. Il 30 luglio, alle ore 20, all’età di 74 anni, lasciò per sempre la terra per ricongiungersi con il Creatore. Alla notizia della sua morte, da Palermo, da Caltanissetta, da Girgenti moltissimi fedeli vennero a Canicattì per rendere l’ultimo omaggio al santo cappuccino e per implorare grazie. Per il mantenimento dell’ordine pubblico, si rese necessario chiedere l’intervento del 68° reggimento di fanteria oltre ai carabinieri ed alle guardie di città. La sera del 31 luglio il Dottor Sciacca procedette all’imbalsamazione del corpo di Padre Gioacchino. Il primo agosto, il suo corpo fu portato , a spalle al cimitero. Il corteo al quale partecipò una folla immensa, durò tre ore. Nella piazza principale, il sacerdote Giuseppe Pagano e l’avvocato Marco Testasecca pronunziarono l’elogio funebre. Durante il corteo funebre, una donna affidò a Padre Gioacchino la propria figlia paralitica che fu completamente guarita. Molte sono le guarigioni miracolose attribuite alla intercessione del Venerabile Cappuccino. Dopo sette anni di attesa, Egli ritornò nella Chiesa della Madonna della Rocca. Era il 21 aprile 1912, un corteo di oltre quarantamila persone esultanti partecipò alla traslazione della salma e, da allora, la Chiesa dei Cappuccini è meta continua di pellegrinaggi. Il venticinquesimo anniversario della sua morte, un apposito comitato presieduto dal Vescovo Mons. Lagumina volle degnamente ricordare il grande Figlio di Canicattì, il Missionario ed il benefattore Padre Gioacchino. In tale occasione, il podestà Antonio Curcio invitò i canicattinesi esortandoli a celebrare degnamente la ricorrenza al fine di onorare il Santo cappuccino che “ dedicò tutta la sua vita alla diffusione della Fede, riuscì sempre col suo santo zelo, con la parola affascinante, con l’esempio, con l’austerità, con la virtù spinta ai gradi eccelsi a travolgere, avvincere, conquistare moltitudini di anime. Canicattì che tanto lo amò in vita esalta oggi il Figlio Eletto del Signore per le grandi dote mai smentite di intemerate virtù, degne di essere venerate”. In un opuscolo edito da un apposito comitato per le onoranze del 25° anniversario si legge: “Canicattì non vuole essere immemore né ingrata e appunto per questo si appresta a rievocare solennemente, nel 25° anniversario della sua dolorosa scomparsa, la bella e luminosa figura del suo inclito Figlio Padre Gioacchino La Lomia…. Fin dalla sua prima giovinezza Egli rinunziò volentieri per Cristo a tutti gli agi e comodi della vita, a tutte le dolcezze intime della famiglia e della patria. E Cristo che aveva conquiso e affascinato il suo cuore, Egli volle seguire nella povertà e nella penitenza , nella preghiera e nel sacrificio”. Nel 1955, il cinquantesimo anniversario della sua morte fu ricordato con la celebrazione di una Santa Messa solenne officiata dal provinciale dei Cappuccini padre Saverio da Aliminusa e con l’inaugurazione del magnifico monumento in piazza IV novembre, opera dell’artista Rosone da Palermo avvenuta il 5 agosto 1955 e benedetto da Mons. Angelo Ficarra, vescovo di Patti. I discorsi commemorativi furono pronunziati dall’arciprete Mons. Vincenzo Restivo, dal sindaco avvocato Giuseppe Signorino e dal senatore Salvatore Sammartino. Canicattì ricorda sempre il suo grande Figlio, Padre Gioacchino e fa voti perché possa essere proclamato Santo. A completamento di questo modestissimo lavoro di ricerca, scandagliando nella vita dell’Umile Cappuccino canicattinese, non posso non prendere atto di una grande realtà: dopo centouno anni dalla sua morte, Egli vive ed opera in mezzo a noi , con i suoi fedeli che Lo invocano e Gli chiedono di intercedere presso Gesù in loro favore. Il suo corpo riposa nel santuario della Madonna della Rocca ma i suoi prodigi ed i suoi miracoli Lo fanno vivere sempre con noi.

Autore: Pietro Drogo – www.solfano/tradizioni/padre_gioacchino 




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Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

mercoledì 26 marzo 2014

IL SERVO DI DIO PADRE GIACOMO FILON DA BALDUINA CAPPUCCINO.




PADRE GIACOMO FILON DA BALDUINA 
Cappuccino 
Servo di Dio 
Balduina (Padova) 2 Agosto 1900 – Lourdes 21 Luglio 1948 

Beniamino Filon nacque a Balduina (Padova) il 2 agosto 1900, sesto degli otto figli di Giacomo Filon e Giuseppina Marin, fu battezzato con i nomi di Beniamino e Angelo. Il padre era fattore nella sconfinata azienda agricola del barone Ugo Treves de’ Bonfili, residente a Padova e qui il piccolo Beniamino crebbe libero e felice a ridosso dell’Adige, delizia e conforto dei genitori, dei numerosi fratelli e della comunità, avendo l’occasione di conoscere i Padri Cappuccini, che arrivavano nella sua bella famiglia per la questua annuale. Nel 1910 ricevé la Cresima a Piacenza d’Adige (Padova) e la Prima Comunione nel 1911 a Balduina; dopo le prime tre classi nella scuola del paese natale, Beniamino Filon, continuò le altre classi a Lendinara nel Polesine, dove ritrovò i Padri Cappuccini che prese a frequentare nel loro convento e Chiesa, poco distanti dal centro cittadino. Nel 1918 compì il servizio militare a Milano, restando impegnato per la Patria per circa quattro anni, al suo congedo riprese la strada della Vocazione Religiosa fra i Francescani, che già a 17 anni aveva scelto, entrando nel seminario dei Cappuccini di Rovigo, studi interrotti per il servizio militare; quindi il 28 settembre 1922 a Bassano del Grappa, vestì l’Abito Francescano, iniziando il Noviziato con il nome di Fra Giacomo da Balduina. Ripresi con nuovo vigore gli studi liceali a Thiene (Vicenza) il 3 luglio 1924 fu trasferito a Venezia - SS. Redentore, nel grande convento della Giudecca e prese a studiare teologia con soddisfazione degli insegnanti. Ma sulla sua giovane vita, aveva 25 anni, si addensarono le nubi di una grave malattia, l’encefalite epidemica o letargica, contratta probabilmente durante il servizio militare. Il male che colpisce di solito i giovani, si manifestò con un processo infiammatorio dell’intero cervello, specie del “sistema frontale” che interessa l’attività motoria, verbale ed ideativa e a fra Giacomo, pur rimanendo integre le facoltà di comprensione, di pensiero e di giudizio, cioè quelle di intendere e volere, il suo corpo cadde in un’astenia generale, incapace di muoversi ed esprimersi come tutti i suoi coetanei, camminava a piccoli passi, parlava farfugliando, peggiorando nei giorni di maltempo. Pur dovendo reprimere la ribellione giovanile che provava, accettò la volontà di Dio e con la forza della volontà, raggiunse prima la Professione religiosa nei Cappuccini l’8 dicembre 1926 e poi la meta dell’Ordinazione Sacerdotale, avvenuta il 21 luglio 1929 a Venezia; celebrando la Prima Messa quindici giorni dopo nel suo paese natale Balduina, accolto da tutti gli abitanti e dallo stesso barone Ugo Treves de’ Bonfili, che prestò l’automobile. Sempre in preda alla malattia, che non lo lasciò più, dimorò per quindici mesi a Capodistria in Slovenia, per prepararsi al Ministero della Confessione, poi nel 1931 fu destinato ad Udine dove restò per 16 anni fino alla morte. Rinchiuso nel suo confessionale visse come “Confessore Santo”, attendendo i numerosi fedeli e sacerdoti, che ogni giorno accorrevano da lui, non solo da Udine ma anche dai paesi vicini. Un indiscusso specialista dell’encefalite letargica, visitò fra Giacomo da Balduina il 29 settembre 1932 e il suo fu un referto mortale: “La diagnosi è infausta, perché la malattia peggiorerà progressivamente e fatalmente, mettendo il paziente fuori combattimento fra qualche anno”. Prescrisse l’unica medicina che poteva portargli qualche sollievo, la scopolamina e grazie a questo medicinale, contrariamente alla previsione dell’illustre clinico, Padre Giacomo Filon visse per molti anni ancora, dedito completamente al Ministero delle Confessioni, dopo la celebrazione della S. Messa mattutina all’Altare della Vergine di Lourdes; sempre nel confessionale del coretto, dove non giungeva mai un raggio di sole, nemmeno in estate e in pieno freddo invernale, che ad Udine non scherza. Sempre sereno, semplice, nonostante la grave malattia, sorridente con tutti, molto buono; a detta di chi lo conobbe, adempiva il suo ministero con zelo mirabile, senza risparmiarsi le poche energie. Negli ultimi anni a causa dell’aggravarsi della malattia, aveva bisogno ormai delle grucce, gli fu concesso di accogliere i penitenti nella sua cella, più calda e situata al piano di sopra. Confidò ad un seminarista, anch’egli con le stampelle: “Io invece, non posso attendermi nulla di meglio. Mi sono offerto vittima a Dio per la santificazione dei sacerdoti. Dio ha accettato l’offerta e ha disposto che l’encefalite letargica fosse lo strumento più adatto al raggiungimento del mio ideale. Molto devoto della Madonna si recò in pellegrinaggio nel 1941 e 1946 a Loreto e nel 1948 a Lourdes, quest’ultima meta fu raggiunta dopo 35 ore di treno in una carrozza di allora con panche di legno, in preda alla febbre. Arrivò a Lourdes nei Pirenei, verso le 16 del 21 luglio 1948; venne subito trasportato all’”Asyle”, uno dei primi luoghi di accoglienza sanitaria, sorti intorno al complesso della Grotta della Vergine; il medico di guardia diagnosticò uno stress da viaggio, ma con il passare delle ore il respiro di Padre Giacomo diventò ansimante e affannoso, perdendo conoscenza. Aprendo gli occhi più tardi, con voce flebile prese ad intonare il ‘Magnificat’, verso le 23 la situazione divenne grave, il cappellano dell’Unitalsi di Trieste, accorso gli somministrò l’Unzione degli infermi e dopo un po’ padre Giacomo rese la sua anima a Dio, nella città di Maria. Venne sepolto nel cimitero parrocchiale del ‘Langelle’ di Lourdes, non lontano dalla Grotta benedetta. Dopo una riesumazione avvenuta il 9 giugno 1997, la salma è stata riposta nello stesso cimitero francese, dove è oggetto di venerazione di fedeli e pellegrini, specie veneti. La causa per la sua beatificazione è iniziata il 25 febbraio 1984. 


Autore: Antonio Borrelli – da Santi e Beati 


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Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

 

venerdì 21 marzo 2014

LA SERVA DI DIO ANGELA JACOBELLIS.


 
Angela Iacobellis 
Serva di Dio 
Roma 16 Ottobre 1948 – 28 Marzo 1961 


Benedetto sei Tu Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli (Matt. 11, 25). Questa citazione evangelica è incisa sulla lapide della sua tomba, posta nella Chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini a Napoli, dove è stata traslata nel 1997; e rispecchia con fedeltà lo scopo della breve vita di Angela Iacobellis, passata a volo d’angelo su questa terra, per ritornare nel Regno dei cieli. Angela nacque a Roma il 16 ottobre 1948 e battezzata il 31 ottobre nella basilica di S. Pietro; già da bambina, la sofferenza si affacciò nella sua vita; un flemmone alla clavicola destra, con le relative cure e punture dei medici per il sondaggio, la fece soffrire enormemente, riducendola all’estremo della resistenza. Ricevette la Prima Comunione e Cresima il 29 giugno 1955 a Napoli, dove la famiglia si era trasferita quando Angela aveva cinque anni. Dalla testimonianza dei genitori, della zia Ada e di quanti l’hanno conosciuta, ne esce fuori il quadro di una bambina, che man mano che cresce, aumenta sempre più la sua fede e l’amore a Gesù Eucaristia; cosciente del grande mistero del Sacramento, abbracciava e baciava i suoi familiari che tornavano dalla Chiesa, dove avevano ricevuta la S. Comunione, perché diceva, per lei era come abbracciare Gesù. Cosa rara per la sua età, aveva un grande equilibrio spirituale, religioso, cristiano; leggeva il Vangelo e prediligeva la recita del S. Rosario; diceva:Bisogna dare il primo posto a Dio”. Le mete obbligatorie delle sue vacanze estive erano le basiliche di S. Francesco e di S. Chiara ad Assisi, santi cui dava una particolare simpatia; in tali periodi frequentava il convento delle Clarisse, rimase con le suore e con la Badessa in grande amicizia, lo testimoniano le tante lettere ricevute dalla Badessa, lettere che proseguirono dopo la sua morte, per dare conforto ai genitori. Angela non è stata una fanciulla prodigio, ma una fanciulla normalissima nei suoi affetti familiari, nella scuola, con le compagne, nei giochi, nei divertimenti della sua età.. A 11 anni le si manifestò una malattia subdola, la leucemia; fu tenuta all’oscuro per molto tempo della gravità del male, ma lei con serenità, con ottimismo, confortando gli altri, accettò le cure e quando capì che il suo male, pur essendo curabile non era guaribile, non si spazientì, non si innervosì, non si avvilì, senza ribellarsi accettò consapevolmente la volontà di Dio, esprimendo tutta la sua gioia e generosità nella preghiera e nel colloquio intimo e semplice con il Signore. La malattia che avanzava inesorabile, la fece distaccare un po’ alla volta da tutte le cose della sua età, la fase finale fu straziante per i suoi familiari, si passava da un’analisi clinica all’altra, da una trasfusione all’altra; un’occlusione intestinale complicò definitivamente la prognosi. La somministrazione di ossigeno non migliorò la situazione, verso le dieci del mattino del 27 marzo 1961, la sua anima volò al cielo, era lunedì santo. A seguito di numerose segnalazioni di persone, che per sua intercessione, asseriscono di aver ricevuto grazie e favori, la fama di Angela Iacobellis si è sparsa in tutta Italia. L’11 giugno del 1991, la Santa Sede ha concesso il ‘nulla hosta’ per l’apertura del processo diocesano in vista di una sua Beatificazione. Il 21 novembre 1997 la salma è stata traslata dalla cappella di famiglia nel cimitero di 
Napoli, alla chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini.

Autore: Antonio Borrelli 


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Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

martedì 18 marzo 2014

IL SERVO DI DIO SILVIO DISSEGNA



Silvio Dissegna 
Servo di Dio 
Moncalieri, 1 Luglio 1967 – Torino 24 Settembre 1979 


La sua storia è presto raccontata, tanto è breve e tanto è luminosa, come un raggio di sole. Nato a Moncalieri (Torino) il 1° luglio 1967, Silvio Dissegna vive la sua fanciullezza cristiana nella sua bella casa, con i suoi genitori e il fratello minore Carlo, a Poirino, nell’ondulata pianura di Torino. Dal giorno della sua Prima Comunione, il 7 settembre 1975, ricevuta per un piccolo privilegio, nella cappellina di famiglia, dedicata a San Pio X, Silvio vive un intenso rapporto con Gesù nella preghiera personale, nella partecipazione alla Messa con la Comunione ogni settimana, con la fedeltà ai suoi piccoli doveri di ragazzo, con una bontà dolce e splendente verso tutti. A undici anni, nella primavera del 1978, si ammala. Il bollettino medico non lascia speranza: cancro alle ossa. Ma lui non si dispera, né si arrende. Vive la sua lunga e dolorosa Via Crucis in unione con Gesù, carico della Croce e Crocifisso, alimentato dalla Comunione Eucaristica quotidiana, in continua offerta del suo dolore e della sua vita a Dio Padre, per la salvezza del mondo. Nelle interminabili ore del dolore, di giorno e di notte, prega senza stancarsi mai, con il Rosario tra le mani, invocando l’intercessione di Maria Santissima, per sé, per i suoi cari, per il mondo intero. Preparato da questo lungo Rosario a Maria, Silvio Dissegna va incontro a Gesù, amico e Signore, il 24 settembre 1979. La sua fama di santità dilaga in molti Paesi del mondo. Anche L’Osservatore Romano ha illustrato più volte la sua vita singolare, una vera meraviglia di Dio nel nostro tempo. Dal 9 novembre 2001, è in corso presso la Congregazione delle Cause dei Santi a Roma, la sua causa di canonizzazione.  

Luce nella notte 
Chi durante la notte, nei mesi della malattia di Silvio, fosse passato presso la sua casa, avrebbe notato la luce accesa alla finestra della sua stanzetta: era Silvio che quasi ininterrottamente nelle notti insonni sgranava la sua corona, un’Ave Maria dopo l’altra, come in una veglia prolungata sul mondo. Incredibile ma vero, non voleva alcuno dei suoi cari vicino, nonostante il dolore atroce, perché diceva: «Io devo pregare e soffrire per guadagnare il Paradiso». «Gesù vuole da me molte sofferenze e preghiere». «Io ho molte cose da dire a Gesù e alla Madonna». In questi giorni, ho potuto avere tra le mani il suo Rosario per alcuni minuti: un’emozione fortissima a far scorrere tra le mie mani quella corona di cinque colori diversi, il Rosario di Silvio, il Rosario missionario, con ogni decina per ciascun continente della terra, un vero abbraccio di preghiera per tutti gli uomini, per tutti i popoli, affinché per l’intercessione di Maria Santissima, abbiano tutti a trovare Gesù, unico Salvatore dell’umanità. Non ho conosciuto di persona Silvio, anche se avevo sentito parlare di lui e del suo Calvario, quando era ancora in vita, ma con il suo Rosario tra le mani, me lo sono visto davanti: diafano, sempre più trasparente per la Croce pesante che portava, reso un’Ostia, lui, del Sacrificio di Gesù che adora Dio ed espia per i peccati di molti. Piccolo, umile, dolente, eppure sereno e forte, capace di guardare in faccia il dolore e di vincerlo in nome e con la forza del Cristo Crocifisso, che vince il mondo. Pare di vederlo, ancor oggi questo angelo adorante davanti a Dio, credente nel suo eterno amore per noi, vigilante sul mondo in agonia. Un mondo, allora, come purtroppo ancor oggi, carico di peccati e di angoscia, «sfrenato nella carne e folle nello spirito», come lo definì Papa Paolo VI (25 novembre 1970). E lui, Silvio, con il suo Rosario che prega nella notte e intercede per tutti, con la sua Corona tra le mani: nella lode e nell’adorazione: «Ave Maria... benedetto il frutto del tuo seno, Gesù», e nella supplica: «Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte». A ogni decina il suo momento di silenzio, con la meditazione del Mistero, con il suo sguardo limpido e penetrante, cui era dato di contemplare, già su questa terra, Gesù nella sua venuta, nella sua offerta, nella sua gloria. Quindi il Padre nostro, le Ave, il Gloria, lentamente, dolcemente, ripetendo: «Gesù, io credo che tu mi vuoi bene... Gesù, io soffro come quando Tu portavi la Croce ed eri picchiato... ecco un’altra tappa della mia salita al Calvario, ma poi verrà la crocifissione... Oh, io sarò felice soltanto quando sarò in Paradiso». E ancora con il cuore aperto al mondo intero, con la dimensione del Cuore di Gesù: «Gesù, mi offro per la Chiesa e per i Sacerdoti... Gesù, io mi offro per la conversione degli uomini a Te... Gesù, mi offro per i missionari e per le missioni, perché tutti gli uomini siano fratelli». 
  
A che serve la vita? 
Lucido, consapevole, mai ingannato né illuso, nella sua condizione, capace, per la fede, per la presenza di Gesù in lui, ricevuto ogni giorno nell’Eucaristia, di guardare la morte in faccia e di vincerla, nella certezza di andare incontro a Dio, appassionatamente amato e atteso. Ha soltanto tra le mani il Rosario, eppure non sembra un piccolo conquistatore che va avanti nel mondo e apre la via a Gesù a chissà quanti fratelli? Chi può mai dire quante anime, lui così piccolo, ha condotto a Dio con il suo Rosario? Roberto Ardigò, un illustre filosofo, ma senza Dio e negatore di Dio, a 92 anni si tagliò la gola, gridando: «A che serve la vita?». Silvio Dissegna a 12 anni appena, ma 12 anni colmi di verità e di amore, rosariante nei suoi giorni brevi, sa dire a tutti noi a cosa serve la vita: a conoscere, amare e servire Dio in questa vita e a goderlo nell’altra, in Paradiso. È tutto, è la verità, è la religione assoluta, che evidenzia questa piccola vita vissuta come un Rosario vivo, nel gaudio della sua fanciullezza, nel dolore della malattia, nella gloria dell’incontro con Dio, sempre unita a Gesù. È l’offerta di sé con Gesù immolato. È il Paradiso che si apre sulla terra. È la via da seguire, l’unica perché altra e diversa non c’è. Ho riconsegnato, con un bacio sul piccolo Crocifisso, il Rosario di Silvio ai suoi genitori, Ottavio e Gabriella. Ma credo di aver sentito la voce di Silvio, autorevole come l’innocenza, che quasi comanda davanti a Dio e agli uomini: «Ora, continua tu, con il tuo Rosario. Salva la tua anima e migliaia di anime con il tuo Rosario. Va’: io ti accompagno». 

Autore: Paolo Risso 


Spesso la sofferenza si ferma in corpi giovanissimi, appena aperti alla vita e in alcuni casi essa diventa valore salvifico da irradiare agli altri, specie i più vicini, che assistono impotenti e angosciati al progredire del male. È il caso di Silvio Dissegna che come Aldo Blundo di Napoli, del beato Nunzio Sulpizio abruzzese e altri, trasforma la sua sofferenza in un offerta a Dio, con le parole e la semplicità di un ragazzo. Egli nasce a Moncalieri (TO) il 1° luglio 1967, trascorre la sua fanciullezza in una innocenza tipica dell’età, tutto teso a rendersi utile ai suoi genitori ed agli amici con cui gioca. Fra lui e Gesù, che ha imparato a pregare, sorge un intesa profonda, che si irrobustisce quando riceve la Prima Comunione insieme al fratello, il 7 settembre 1975. Molto intelligente, a scuola si distingue per l’impegno che mette in tutte le cose, i suoi quaderni sono pieni delle descrizioni della natura, dei giochi, della vita familiare e dei propositi per l’avvenire: “Da grande farò il maestro per insegnare agli altri”. Nel 1977 a Natale, la mamma gli regala una macchina per scrivere e lui su un foglio batte con i tasti: “Ti ringrazio mamma, perché mi hai messo al mondo, perché mi hai dato la vita che è tanto bella! Io ho tanta voglia di vivere”. Nella primavera del 1978 comincia a lamentarsi di un dolore continuo alla gamba sinistra; si scopre che è un cancro alle ossa; pur non avendo ancora 11 anni. capisce lo stesso quello che gli capitava, non si dispera e si affida alla volontà di Dio e alla materna protezione della Madonna. Il 21 maggio 1978, già in carrozzella, riceve la cresima, le condizioni si aggravano e i dolori sono fortissimi, chiede di ricevere ogni giorno Gesù Eucaristico; dal giugno 1978 al gennaio 1979 inizia per lui una Via Crucis con sette ricoveri a Parigi in cerca di cure e guarigione; prese ad offrire ogni giorno le sue sofferenze per uno scopo: “Oggi le offro per il Papa e la Chiesa”; “Oggi le offro per la conversione dei peccatori”. Accoglie tutti con un sorriso, consola i genitori ed il fratello, dà coraggio ai medici che si sentono impotenti; si sente la presenza di Dio in quella creatura e questo l’avvertono quanti gli si avvicinano. Nella primavera la malattia avanza senza pietà e Silvio perde anche la vista, non si lamenta mai, ma chiede insistentemente la Santa Comunione. Riceve l’unzione degli infermi il 24 settembre 1979 e dopo un poco la sua bella anima vola verso Gesù tanto amato. L’8 febbraio 1995 è stata aperta dall’arcivescovo di Torino, la causa per la sua Beatificazione. 

Autore: Antonio Borrelli 


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Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano

sabato 15 marzo 2014

VENERABILE EGIDIO BULLESI - TERZIARIO FRANCESCANO .



EGIDIO BULLESI 
Venerabile 
Terziario Francescano 
Pola (Istria) 24 Agosto 1905 – 25 Aprile 1925 


In questi ultimi decenni vengono sempre più spesso alla ribalta, figure di laici impegnati, giovani e meno giovani, che hanno fatto la storia dell’Azione Cattolica Italiana, originari da ogni angolo d’Italia e che per il loro donarsi spassionatamente all’apostolato fra i laici, mettendo in pratica il motto programmatico dell’Associazione: “Preghiera, Azione, Sacrificio”, hanno meritato per la loro santa vita, l’avviarsi delle relative Cause di Beatificazione. È il caso di Egidio Bullesi, il quale nacque a Pola (diocesi di Parenzo) nell’Istria e che allora apparteneva all’Austria, il 24 agosto 1905; terzo dei nove figli di Francesco e Maria Diritti, frequentò la scuola italiana, fino a quando nel 1914, scoppiata la Prima guerra Mondiale, dovette con la famiglia rifugiarsi a Rovigo in Italia. Ma dopo la dichiarazione di guerra da parte italiana all’Austria, mentre il padre era rimasto a lavorare a Pola, lui con il resto della famiglia, si dovette trasferire a Szeghedin (Ungheria), Wagna (Stiria) e Graz (Austria). Di carattere esuberante, impulsivo, istintivo, si sentiva profondamente italiano; per questo la famiglia Bullesi durante tutto il periodo della guerra, trascorse un periodo nero. La famiglia ritornò a Pola, diventata italiana, dopo il 1919 e secondo i biografi ebbe un periodo di rilassatezza nella pratica religiosa. Ma l’adolescente Egidio si riprese ben presto, con l’arrivo dei padri Francescani, che prese a frequentare, prima nel santuario della Madonna di Siana e poi nel centro della loro attività, l’orfanotrofio di S. Antonio. Intanto a 13 anni prese a lavorare come carpentiere nell’arsenale di Pola, dove nonostante la giovane età, si fece notare per la coraggiosa pratica della sua fede cattolica, specie in quell’ambiente di affermato socialismo, meritandosi comunque l’ammirazione e la stima di tutti. Seguendo l’esempio della sorella Maria, il 2 luglio 1920 a 15 anni, s’iscrisse nelle file della Gioventù d’Azione Cattolica e il 4 ottobre dello stesso anno, volle diventare anche Terziario Francescano. Nel campo lavorativo passò poi dall’Arsenale al cantiere navale di Scoglio Olivi, sempre a Pola, tenendo ben alti e saldi i suoi principi religiosi e morali; puntuale nei suoi doveri di lavoratore, tenendo testa con garbo ed attenzione a tutte le obiezioni e contrapposizioni in campo religioso. Con il suo entusiasmo di giovane istituì a Pola gli esploratori cattolici; aveva 19 anni quando si arruolò nella Marina Militare imbarcandosi sulla nave “Dante Alighieri”, anche qui operò il suo apostolato di giovane cattolico fra i circa mille marinai; diceva sempre: “L’Italia sarà grande solo quando sarà veramente cristiana!”. Dopo tre anni si congedò il 15 marzo 1927. Nonostante la grande crisi del lavoro che attanagliava l’Italia, fu chiamato, tramite il fratello maggiore Giovanni a lavorare nel cantiere navale di Monfalcone (Gorizia), dove il lavoro non mancava in quel periodo di armamento militare, scaturito con l’avvento del Fascismo. Anche a Monfalcone riprese il suo apostolato fra gli operai e dedicandosi anche alla ‘Conferenza di San Vincenzo’. Ma la sua splendida testimonianza di giovane cattolico impegnato, era giunta al termine, verso la fine di febbraio 1928 si ammalò gravemente, la malattia fra alti e bassi si protrasse per due mesi, finché si spense a soli 24 anni il 25 aprile 1928. Rivestito con la tonaca francescana fu seppellito nel cimitero di Pola; la fama della sua santità si diffuse rapidamente fra i marinai, dentro e fuori d’Italia e fra i membri dell’Azione Cattolica. Per i noti motivi politici, che coinvolsero l’Italia e l’Europa, con il seguito della Seconda Guerra Mondiale e anche con la perdita dell’Istria, assegnata nel 1947 alla Jugoslavia, non si poté aprire la Causa per la sua beatificazione, fino al 6 dicembre 1974, quando finalmente fu aperta dalla Curia di Trieste. La sua salma fu esumata dal cimitero di Pola e traslata definitivamente nell’isola di Barbana (Grado, Gorizia). Con decreto del 7 luglio 1997, Papa Giovanni Paolo II gli ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù e il titolo di Venerabile.


Autore: Antonio Borrelli – da Santi e Beati 





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Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano 

giovedì 13 marzo 2014

BEATA ANIELA ( ANGELA ) SALAWA - TERZIARIA FRANCESCANA.



Aniela (Angela) Salawa 
Beata 
Terziaria Francescana 
Siepraw-Cracovia 9 Settembre 1881 – Cracovia 12 Marzo 1922 

La categoria delle domestiche ha dato lungo i secoli, alla Chiesa e alla cristianità, tante figure di Beate e Sante, che iniziando a lavorare in questo campo, per un tempo più o meno lungo, portarono nelle famiglie e nei fedeli, l’esempio delle loro virtù cristiane e morali; e di un apostolato possibile in ogni ambiente del vivere quotidiano. La maggioranza di esse, lasciarono poi il compito di domestiche, per entrare a far parte di Istituti e Congregazioni religiose, alcune diventando loro stesse fondatrici; quando non divennero suore, entrarono senz’altro nei Terz’Ordini religiosi. Ma ci furono anche quelle che domestiche erano e tali rimasero fino al termine della vita; santificandosi fra i fornelli e le pulizie delle abitazioni, fra rimproveri o ammirazione dei padroni di casa, diventando apostole di Cristo fra i bisognosi. Tale fu s. Zita (1218-1278) domestica di Lucca, patrona della città e nominata da papa Pio XII il 26 settembre 1953, patrona delle domestiche, festa il 27 aprile; e poi a cavallo fra l’Ottocento e Novecento la Beata polacca Angela (Aniela) Salawa, oggetto di questa scheda. Nacque il 9 settembre 1881 a Siepraw presso Cracovia in Polonia, undicesima dei dodici figli di Bartolomeo Salawa ed Ewa Bochenek, al battesimo le fu dato il nome di Angela (Aniela); il padre era fabbro e la madre tutta dedita alla casa ed ai numerosi figli, ai quali insegnava la pietà, la modestia e la laboriosità. E con questi principi crebbe e si formò sotto la guida della madre, che la preparò anche alla Prima Comunione verso i dodici anni, secondo la consuetudine dell’epoca. Già a 15 anni nel 1894 era a servizio presso una famiglia di Siepraw, pascolava le vacche, falciava l’erba, intratteneva i bambini, all’inizio della primavera del 1895 estirpava le radici e i ciuffi d’erba nel gelo del periodo. Rientrò in famiglia dove sostò fino all’ottobre 1897, rifiutando nel frattempo le insistenze del padre che la spingeva verso il matrimonio; poi si trasferì a Cracovia per andare a lavorare come cooperatrice familiare, dai primi giorni fu ospitata dalla sorella Teresa, alla quale ribadì che non si sentiva chiamata al matrimonio. A Cracovia, andò a servizio presso la famiglia Kloc, dove lavorò duramente senza mai lamentarsi; aveva 16 anni ed era attraente, il padrone di casa prese ad insidiarla, per cui Angela dopo poco tempo lasciò l’occupazione. Dopo altri rapporti di lavoro in alcune famiglie dei paesi vicini, ritornò a Cracovia, dove assistette il 25 gennaio 1899, alla serena morte della sorella maggiore Teresa, anch’essa domestica; rimasta scossa dalla perdita, avvertì il richiamo di una voce interna che la chiamava a percorrere la via della perfezione, voce alla quale lei corrispose prontamente. Cercò la forza prolungando il tempo della preghiera in Chiesa e in casa e nella meditazione; con l’assistenza del suo direttore spirituale il Gesuita Padre Stanislao Mieloch, si consacrò a Dio, con il voto di castità perpetua, voto già pronunciato nella prima giovinezza. Prese a dedicarsi ad un apostolato oscuro e fecondo, fra le domestiche di Cracovia, le riuniva, le istruiva, le consigliava, le dirigeva; nell’adempiere i doveri delle sue mansioni, dimenticava spesso sé stessa. Nonostante la salute precaria, era sempre allegra e socievole; si vestiva bene, non per il mondo ma per Dio. Nel 1900 si iscrisse all’Associazione di S. Zita, che promuoveva l’assistenza alle domestiche, così poté esercitare in forma più organizzata, un fruttuoso apostolato fra le sue compagne di lavoro, diventando per loro una guida e un modello di vita cristiana. Nel 1911 fu colpita da una dolorosa malattia, che la sconvolse per lungo tempo, poi morì la madre e la giovane signora alla quale prestava la sua opera con affetto e dedizione; inoltre si sentì abbandonata anche dalle compagne che non poteva più radunare in casa. Questo periodo di angosciosa sofferenza, raccontato nel suo Diario, fu affrontato da Angela, unendosi maggiormente a Dio nella preghiera e nella meditazione e nel 1912 ebbe anche fenomeni mistici, con la visione dell’incontro con Gesù. Aderì al Terz’Ordine di S. Francesco, prendendone l’abito il 15 maggio 1912, nella chiesa dei Francescani Conventuali e il 6 agosto 1913 emise la regolare professione. Durante la Prima Guerra Mondiale, aiutò con i suoi pochi risparmi, i prigionieri di guerra, senza distinzione di nazionalità; volontariamente si impegnò con amore all’assistenza dei feriti e dei malati negli ospedali di Cracovia, dove rispettosamente era chiamata la santa signorina”. Per avere rimproverata l’amante del suo padrone, l’avvocato Fischer, fu licenziata nel 1916 da quella casa dove lavorava dal 1905. Seguirono alcuni anni di abbandono, senza lavoro e con la malattia più incalzante, mentre proseguivano i fenomeni mistici; nel 1918 ormai debilitata nelle forze, lasciò anche i lavori saltuari e si ritirò in un piccolo ambiente in una soffitta, preso in affitto; iniziò così l’ultimo periodo della sua vita, cinque anni di sofferenze in unione con Dio, che la gratificava con visioni, specie di Gesù con la corona di spine e sofferente. Il confessore le portava ogni giorno la Comunione e le compagne inconsolabili, si alternavano nel suo tugurio per assisterla. Annotò sul suo Diario: “Ripensando alla mia vita, credo di essere in quella vocazione, luogo e stato, in cui fin dall’infanzia Dio mi ha chiamato; nella sua ardente carità, pregò di prendere su di sé le malattie degli altri, le sue sofferenze si moltiplicarono, mentre coloro per cui si era offerta guarirono. Alla fine acconsentì di lasciare quell’ambiente ristretto e fu ricoverata all’ospedale di S. Zita in Cracovia, dove dopo aver ricevuto i Sacramenti, spirò il 12 marzo 1922 in estrema povertà e in fama di santità. Nella concomitanza dell’apertura del processo diocesano per la sua Beatificazione, le sue spoglie il 13 maggio 1949, furono traslate dal cimitero alla Basilica di S. Francesco di Cracovia. Papa Giovanni Paolo II la proclamò Beata il 13 agosto 1991 a Cracovia, durante il suo viaggio apostolico in Polonia. La sua festa celebrativa è al 12 marzo. 

Autore: Antonio Borrelli – da Santi e Beati



 LAUS  DEO 

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano
 

sabato 8 marzo 2014

SUOR VERONICA BARONE 1856 - 1878 L'ESTATICA CAPPUCCINA DI PADRE PIO LA SCALA DA MAZZARINO MIN. CAPPUCCINO - TESTIMONIANZE 1 .




SUOR VERONICA BARONE 
1856-1878 
L'ESTATICA CAPPUCCINA 
di 
Padre Pio La Scala 
da Mazzarino 
Min.Cappuccino. 
Testimonianze 


Testimonianza n°5 
Nos Antonius Morana 
Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopus Calathayeronen 
Grammichele, 28 Gennaio 1878 
Innanzi a me sacerdote Gaetano Blandini, segretario di S.E.R.ma Monsignor Vescovo Antonino Morana, si è presentato il Reverendo Padre Giuseppe Sammartino dei Padri Cappuccini del Convento di Vizzini, qui dimorante, il quale per disposizione del lodato Mons. Vescovo, ha fatto la seguente dichiarazione, premesso il giuramento tacto pectore sacerdotali. Il giorno 4 Gennaio 1878, di venerdì, circa le ore venti italiane io andai a visitare la mia penitente Suor Veronica Barone, Terziaria Cappuccina, figlia di Francesco e Vincenza Vaina Cicero, la quale Veronica contava 20 anni anni e 19 giorni. La trovai come l'avevo lasciata il giorno innanzi abbattuta, pallidissima, quasi agonizzante. Scoccata l'ora ventuna (h.21), durante la quale sino alle ore 22 aveva soluto avere sempre costantemente ogni venerdì per circa trent'anni un'ora di assedio diabolico, mi avvidi che questa volta, contro il solito, non dava segno alcuno di combattimento o di assedio, ma solamente si lamentava della malattia. Io, che avevo udito da quattro anni circa, dalla bocca stessa di lei, e meco altri avevan pure ciò saputo che la morte di detta Veronica sarebbe stata vicina a quel venerdì, in cui non si sarebbe verificato il combattimento diabolico, la interrogai: << Veronica, non hai avuto la solita ora di tentazione?>> ed essa mi rispose - << Quando si muore non ci sono tentazioni>>; - ed io a lei: << Dunque ci licenziamo>>, - e lei << Sono pronta>>. Aggiunsi io: << Ma come faremo con tua madre, capace di farti perdere il frutto di tante fatiche?>>, - <<Come fa l'obbedienza>>. . La madre intanto era ansiosa e temeva qualche disastro, perché sapeva quanto sopra si è detto circa l'epoca della morte di Veronica, ed aveva notato che eran mancati in quel venerdì i soliti segni dell'assedio demoniaco. La tranquillizzai, facendo credere alla madre che il combattimento si fosse verificato. Tornato da Veronica le dissi: << Chi sa che dopo la mezzanotte ti sentirai più male? Allora mandami a chiamare senza timore>>. Io le avevo detto così, perché il cuore mi faceva temere che Veronica si approssimasse alla sua fine e dissi “dopo la mezzanotte” perché non poche volte avevo visto una positiva mutazione in meglio nella salute di Veronica da una mezzanotte in poi. Veronica rispose: << Sono morta tanto>>. Mi ritirai in convento e verso un'ora di notte, venne da me il padre di Veronica a dirmi: << Veronica si sente morire, brama al solito la santa obbedienza per tollerare i dolori>>, ed io la benedissi alla presenza del padre e di vari sacerdoti che erano presenti. Mi misi a letto verso le ore 4 del mattino, ma non sapevo addormentarmi perché temevo sempre in confuso di qualche grave crisi della salute di Veronica; anzi mi alzai e mi misi a sedere sulla sponda del letto, recitai i salmi in sollievo dell'abbattuta Veronica e così passai fino alle ore 9 e mezzo del mattino, quando udii suonare il campanello della portineria; corsi allora al balcone, chiesi chi suonasse e mi rispose il padre di Veronica, piangendo mi disse: << Veronica è morta!>>. Sollecitamente mi recai con lui e con Fra Salvatore da Militello, laico professo, in casa di Veronica. Entrandovi, udii da tutti: << E' morta!>>. Mi avvicinai, la vidi sul letto coricata, con gli occhi chiusi, le mani sul petto, da parere veramente morta. Le tastai i polsi e non battevano. Allora le presi la mano destra e le gridai forte per due volte: << Veronica!>>. Essa aprì un occhio e l'altro un pochino e con l'indice della sua mano, pareva volesse stringere la mia. Io, sospettando in tali segni e da altri che pure furono notati da Fra Salvatore da Militello, dalla madre il desiderio in essa di aversi la mia obbedienza a morire, la benedissi dicendole: << Va a dare soddisfazione a Dio>>. Questo sospetto mi nacque perché spesse volte, per lo spazio di due o tre anni, mi aveva essa detto: << Morrò con la vostra obbedienza>>. Subito chiuse gli occhi, abbandonò la mano, né più diede segno alcuno di vita. Dal padre, dalla madre e dalla sorella Giovanna, seppi che alle ore 8 italiane, Veronica chiedeva con istanza di chiamare me, ma la madre non lo volle fare e Veronica le rispose: << Io piglierò di qua stesso la obbedienza e lascio ogni rimorso sull'anima vostra>>. - Poco prima alla sorella aveva detto: << Tieni cara la veste di San Francesco, non ti fare levare mai l'abito di Terziaria Cappuccina; appena sarò morta, pigliati la medaglia (medaglia della Madonna che Suor Veronica indossava sempre al collo) ed il Crocifisso che tengo sul petto, se no, non ci arriverai; non voglio che la veste tua sia tinta a nero>> - Giovanna rispose: << Perché parli così? Forse devi morire?>> - E Veronica: << Altronde dobbiamo morire>>. Nella notte del 5 al 6, ossia dal sabato alla domenica, io per ben quattro volte, dal coro della nostra chiesa conventuale, guardando Veronica, già morta e sistemata in chiesa, le gridai: << Veronica! Rispondimi! Io ti do la santa obbedienza!>> - Ma non ebbi risposta alcuna. Feci così nella speranza di essere da lei ascoltato. Il corpo di Veronica rimase nella nostra chiesa conventuale dal sabato a Martedì mattino sino alle ore 15 del pomeriggio, sempre inodore, sempre flessibile dalla testa ai piedi e sempre di fisionomia bella e ridente. Un medico, dopo varie osservazioni dell'intero collegio, disse: << Si deve seppellire, perché l'addome dà inizio di putrefazione>>. Io credo che non ce ne fosse niente. Il cadavere è seppellito in un luogo separato e distinto, tengo io la chiave della cassa che è foderata di zinco. Questa dichiarazione dopo letta, viene sottoscritta dal Padre Giuseppe dichiarante e da me. 
Fra Giuseppe Sammartino da Vizzini, Cappuccino Sac. 
Gaetano Blandini, Segretario Vescovile 

Testimonianza n° 6 
Lettera di Dom Alfonso Spadaro, monaco Benedettino di Palazzolo Acreide (Siracusa). Le rimando la lettera di Monsignor Blandini. In essa è quanto avrei potuto dire sul conto di Suor Veronica. Avendo esaminato il suo spirito insieme con Monsignor Gaetano Blandini, allora Segretario di Monsignor Antonino Morana, della cui valentia, in affari di tal natura ebbi prove luminose, entrambi ci siamo trovati concordi nel riconoscere inappuntabile lo spirito di quella verginella; né ho altro da aggiungere. Sarei lietissimo se a quell'anima eletta fossero decretati gli onori degli Altari.  
Palazzolo Acreide, 1 Novembre 1900 
Dom Alfonso Spadaro dell'Ordine di San Benedetto 

Testimonianza n° 7 
Signor Cicero Salvatore fu Francesco 
Capo mastro al cimitero comunale di Vizzini 
Dopo 5 anni dalla morte di Suor Veronica Barone, il cadavere fu trovato intatto. Coscenziosamente mi consta che il 5 Gennaio 1878, cessava di vivere Suor Veronica Barone e fu seppellita presso questo Cimitero. Intanto avendo io costruita una sepoltura di mia pertinenza negli anni susseguenti, fui dai parenti incaricato al disseppellimento di detta Suor Veronica Barone e propriamente cinque anni dopo morta cioè il 1883. Spinto da quel desiderio che è innato in ogni individuo, fui curioso scoperchiare la cassa mortuaria per vedere in quale condizione trovavasi il cadavere. A dire il vero e con coscienza, fui grandemente sorpreso e meravigliato al vedere una cosa del tutto incredibile, cioè il cadavere sembrava morto lo stesso istante; era intatto, senza alcun cambiamento. Allora feci richiudere bene la cassa facendola adagiare su quei sostegni che in detta sepoltura si trovano appositi. Ciò è tutto quanto posso testimoniare.  
Vizzini, 31 Maggio 1908. 
Cicero Salvatore fu Francesco Capo Mastro 

Testimonianza n° 8 
Io, Fra Celestino da Ceppaloni, 
avendo il molto Rev.do Padre Serafino da Vizzini, Cappuccino, mandato alcune immagini di sua sorella, la Serva di Dio Suor Veronica Barone da Vizzini; la cui Causa di Beatificazione si sta trattando, ad un Missionario Cappuccino del Convento di Nostra Signora de Penha, nella città di Recife, capitale dello Stato di Pernambuco, in Brasile, il citato Missionario mandò distribuirle per alcune persone raccontando fatti straordinari della riferita Serva di Dio. La suora Terziaria Secolare Cappuccina, Adelaide di Albuquerque e Mello, di anni 22, avendo ottenuto una immagine di Suor Veronica Barone e udendo raccontare i suoi miracoli, concepì l'idea affinché per sua intercessione ottenesse la cura di una febbre intermittente che la perseguitava da circa 7 anni e per la quale non aveva potuto trovare un rimedio, fece secondo questa intenzione una novena alla Serva di Dio e subito, nel primo giorno, la febbre disparve rimanendo in seguito completamente guarita. Animata da questo avvenimento, consigliò ad una sua cugina, chiamata Maria da Gloria d'Albuquerque e Mello, di anni 15, che ricorresse alla Serva di Dio affinché guarisse da acuti dolori di denti, che da più tempo la tormentavano. Questa essendo stata assalita il giorno 20 di Giugno dal riferito dolore di un modo orribile, recitando una Salve Regina e applicando alla faccia l'immagine di Suor Veronica Barone, rimase immediatamente sana e fino ad oggi non si è ripetuto più questo male.  
Recife, 6 Agosto 1908. 
Padre Celestino Maria da Ceppaloni Missionario Cappuccino 

Suor Veronica Barone, che il tuo sguardo benevolo si posi sulla nostra Italia e vi susciti uomini forti e volenterosi, per appagare i voti e i desideri dell'angelico Pontefice Pio X sul nostro Serafico Ordine Cappuccino, i cui membri, come ebbe a dire un eminente Prelato, sono i figli più ossequiosi e devoti alla Chiesa e al Papa, e lo coadiuvi a rendersi sempre più benemerito della Religione cattolica e della società, seguendo le orme del gran Fondatore San Francesco d'Assisi, il più santo fra gli Italiani e il più Italiano fra i santi; su questa tua prediletta Provincia Monastica Siracusana dei Cappuccini, chiamata “l'aquila delle Provincie Cappuccine”, mentre dava all'Ordine 3 Padri Generali, di cui uno, Padre Innocenzo Marcinò (oggi Venerabile), sarà elevato agli onori degli altari e, ritemprata nella sua Fede, conscia della propria missione, rifulga per lo zelo delle anime, per lo splendore delle Virtù e vada avanti nel difendere la causa di Dio, del Papa e dei fedeli. Padre Pio La Scala, Cappuccino.  
* * * * 
Il Signore possa darci la gioia immensa di vedere prestissimo canonizzata Suor Veronica Barone Terziaria Cappuccina l'estatica francescana l'innamorata di Cristo Gesù il fiore più profumato tra i Santi di Sicilia e dell'Ordine Francescano Cappuccino.  

Fine. 



LAUS  DEO 

Pax et Bonum 


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano