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giovedì 18 febbraio 2016

MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO - CAPPUCCINO - PARTE TERZA.



Vocazione e contrasti 


Atteso il suo carattere mite e pacifico, sembrerebbe che non avesse dovuto mirare a mete alte, né sognare ideali ardimentosi, propri degli entusiasti e dei coraggiosi. Uno dei suoi compagni scrisse: << Fra candido era molto pratico e di buon senso, né viveva di quelli ideali si cui si illudono i giovani >> (1). 
Certo, sogni chimerici non ebbe, ma un ideale gli sorrise di sicuro, sempre: il sacerdozio
Era affiorato in lui quasi con la ragione e con quella tendenza istintiva del divino, che manifestava nei modi più in là illustrati. Né fu ideale d’infanzia, impreciso e leggero, che con l’età si dilegua. Questo benedetto figliuolo, già arricchito da Dio d’un carattere privilegiato e di un’indole molto adatta alla vita sacerdotale, ebbe tra l’altro la grazia singolare di non vedere mai oscurarsi questa luce nella mente, di modo che col trascorrere degli anni sentiva accendersene più la fiamma nel cuore. L’attrazione del Divino in lui era costante, era potente. Se non come spiegare quel fascino che la vita spirituale esercitava su di lui, e quella sete di letture che mai s’estingueva? 
Il pregare, il leggere, l’occuparsi in ciò che riguardava Dio e l’anima era per lui una necessità. La si trovava sempre bene. S’immergeva in quell’atmosfera, e cercava di non uscirne mai. Perché
L’ape torna al fiore, perché vi si trova il miele. Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Là è il tuo cuore, dov’è il tuo tesoro. 
Visse sempre con l’idea d’essere sacerdote, non alimentò altra aspirazione, e con frequenza la manifestava. 
Trovò però un ostacolo. 
Il padre, che viveva del suo lavoro, non la pensava come lui, e meditava di averlo come aiuto in campagna. Era il primogenito, si dimostrava tanto docile, rispettoso ed ubbidiente. Cercò quindi di affezionarlo ai campi, e ve lo conduceva spesso. Anche la mamma aveva piacere che vi andasse di tanto in tanto, perché temeva della sua salute nel vederlo sempre immerso nelle sue preghiere e nelle sue letture. Ma ogni volta che il fanciullo doveva accontentarli, prima di partire si rimpinzava le tasche di libri, e nei momenti liberi, rincantucciandosi di qua e di la, o mettendosi sotto gli alberi, leggeva, pregava, si tuffava nei suoi sogni di cielo e di eternità, s’abbandonava alle ispirazioni così nobili del suo cuoricino e della sua anima serafica. 
Il padre ne rimaneva stupito, e talora interdetto. - Totò - gli diceva - ma qui sei venuto per lavorare e distrarti: non per leggere. Aiutami quindi in qualche cosa!
Il figliuolo, da quel serafico che era, chiudendo il libro e rimettendosi in tasca e correva, dove quello l’inviava. Ma poi, appena libero, di nuovo s’ingolfava in quelle pagine, delle quali sembrava si sprigionassero armonie di celesti concerti, da ricrearne il cuore e deliziarne la mente. 
Che farci? Era una fame misteriosa che gli faceva cercare il nutrimento dove solo lo poteva trovarlo, cioè nell’atmosfera di celesti aspirazioni di cui viveva. 
Voleva essere sacerdote. Per lui era certezza, e i libri gli erano indispensabili, trovandovi quella luce e quel conforto, che altrove per lui non esisteva. 
Nel 1931 aveva compiuto dieci anni e terminato le scuole elementari. Il professore, sacerdote Cannarozzo - che ne aveva << ammirato l’indole serafica e l’ottima intelligenza >> - avrebbe desiderato che proseguisse a studiare. Ma visto che il padre mirava ad averlo al lavoro, ne smise il pensiero. 
La madre invece e la zia Agnese, ammirandone l’angelica condotta e i vivi desideri di consacrarsi a Dio, pensarono di fargli frequentare il convento dei Cappuccini, in attesa che intanto fosse schiarito l’orizzonte e aperta una via. Non era proprio il Signore che faceva sentire sì forte nel cuore del figliuolo quella vocazione e gli dava sì grande attrattiva per il sacerdozio? E non avrebbe dunque pensato a soddisfarlo? 
Non osando parlarne al padre, le due donne, insieme con Totò vanno a consigliarsi con Padre Gaetano da Mazzarino, già Provinciale, il quale ricevette buona impressione del ragazzo, e promise d’interessarsene; anzi volle dare al giovanetto una vita del Servo di Dio Fra Giuseppe Maria da Palermo (2), dicendogli: 
- Leggila, e si santo come lui!
Ma non si limitò a questo soltanto. << Non fermandomi alle sole assicurazioni della madre - scrive Padre Gaetano - volli interpellare il professore sacerdote Cannarozzo, già suo insegnante di quinta elementare. Mi rispose: << “ Lo Scebba è di un’indole serafica e di ottima intelligenza. Ero disposto ad aiutarlo per continuare gli studi, ma visto che suo padre non si presentava, perché contrario, me ne disinteressai ” >>. 
<< Il padre - segue Padre Gaetano - pensava di farne un contadinotto, per aiuto nei campi e per portare il peso della famiglia. Lo mandai a chiamare anch’io; ma non ottenni l’intento >>. 
La madre nondimeno poté riuscire a fargli frequentare il convento dei Cappuccini, dove tutte le mattine - quando poteva - serviva la messa e faceva la Comunione, godendo molto di poter stare vicino ai religiosi. Allorché s’avvicinò Natale, il guardiano, attese le funzioni speciali che avevano luogo nella chiesa, lo invitò a rimanere in convento per quei giorni anche di notte. Totò corse subito a casa, e pazzo di gioia comunicò la sua fortuna alla mamma, chiedendo un paio di lenzuola per il lettuccio che gli si preparava. 
In una relazione intorno a quel tempo e scritto: << Stando in convento Totò era tanto premuroso nel servire la Messa destava ammirazione. Con modestia di angioletto andava da una parte all’altra dell’altare, accendeva e spegneva le candele, sistemava le tabelle e quanto vi era intorno. Vi stava contento, e quando veniva in casa, diceva tante belle espressioni sul convento e sui religiosi, raccontando quanto gli volevano bene >>.
Ma ciò non poteva bastare. Occorreva lo studio, e la madre, non sapendo come risolvere il problema, né avendo i mezzi d’inviarlo in seminario, fece pregare il sacerdote Quattrocchi, suo cugino, per un po’ di scuola, in attesa che il Signore avesse provveduto diversamente. Andò a presentarglielo propriamente uno zio, Vincenzo Scebba, il quale s’interessava pure di lui. Il sacerdote Quattrocchi, esaminatolo, ne fu contento. << Rimasi soddisfatto e meravigliato - scrive egli stesso - al sentire che già conosceva le quattro coniugazioni dei verbi attivi con gli ausiliari, per cui esclamai: 
<< - Bravo!… Se sarai studioso, vinceremo tuo padre. - >>. Il fanciullo tornò a casa rinfrancato, e in seguito, per quanto quel sacerdote fosse già abbastanza occupato, poté riceverne qualche ora di scuola, e quello trovò in lui una corrispondenza perfetta di docilità e di intelligenza. << Lo ricordo ancora - scrive il Quattrocchi - calmo, sereno, sempre presente a se stesso, dagli occhi neri e vivaci, dal portamento umile, rispettoso, con quell’ingenuità dai cui traspariva la sua anima candida… Non ebbi mai a mortificarlo, perché nel suo diportamento era inappuntabile, e mostrava una maturità precoce >>. 
Totò in quella casa, non solo riuscì a guadagnarsi l’affetto del maestro, ma anche dei familiari, che rimanevano edificati dalla paziente attesa di lui allorché il Quattrocchi era occupato. 
<< Parlava poco - dice il medesimo - ma se interrogato, rispondeva con precisione. Amava lo studio e vi si dedicava con trasporto. Di memoria robusta e tenace, era facile ad apprendere brani di poesia, che ripeteva con fedeltà. Ogni volta che si concedava, chiedeva sempre la benedizione. Del resto, anche i maestri delle scuole elementari ne avevano tessuto elogi. Il professore Vincenzo Arena Guerrieri, che in uno scritto lo chiama << angelico alunno >>, dice tra l’altro: << Questo docile e affettuoso bambino manifestò subito le sue non comuni doti d’ingegno e di cuore. Pronto nell’apprendere, tenace nell’operare, non conobbe mai l’orgoglio, fu sempre umile coi compagni, che cercava di proteggere e di aiutare >>. 
Frequentò la scuola di Quattrocchi per circa due anni. Ma questa soluzione nera stata provvisoria. La madre, gli zii e Padre Gaetano stesso tendevano a quella definitiva. 
Il Quattrocchi da parte sua, col consenso dei genitori affine di dirimere la difficoltà finanziarie, tentò di farlo ammettere gratuitamente presso i Padri Gesuiti di Noto. E c’era riuscito, poiché dal Padre Mina capelli - allora rettore del Collegio - si ebbe il 22 Agosto 1932 questa risposta: << Che dirle del giovinetto Scebba? La buona volontà d’ammetterlo in questa Scuola Apostolica certo non manca. Trattandosi di giovinetto veramente buono, sano, intelligente e deciso a seguire la vocazione religiosa della nostra compagnia, siamo disposti a sobbarcarci ai non pochi e gravi sacrifici che si richiedono >>. 
Ma il padre - già indisposto per se stesso - si oppose recisamente allorché seppe che a rimpatrio il ragazzo non sarebbe tornato più. Occorreva dunque cercare altra strada. Totò del resto si era affezionato molto ai Cappuccini, e il padre, visto ch’egli non trovava pace fuori della vita religiosa, facendo dei sacrifici, affidò tutto al Padre Gaetano per farlo ammettere nel Seminario Serafico di Gela. 


VI 
In Seminario 

Inutile dire della gioia del giovinetto. Non sapeva come manifestare la sua gratitudine a Padre Gaetano, e diceva spesso ai parenti: - Cosa io potrò fare per lui? Certo non ho mezzi sufficienti per manifestargli la mia riconoscenza.
Il 24 Ottobre 1932 partì per il Seminario Serafico di Gela. In onta all’attaccamento assai sensibile della famiglia, se ne andò lieto. Gli si apriva la via già si a lungo sospirata e contesa, si vedeva messo decisamente sul cammino che doveva guidarlo a quel sacerdozio che gli aveva sorriso sin dai teneri anni, sogno radioso della sua piccola esistenza, che lo aveva deliziato sin da quando - ancora marmocchio - costruiva altarini e celebrava a modo suo la Messa. Inoltre lasciava quel mondo cattivo che sempre gli aveva fatto paura, perché quando la mamma talora gli aveva detto: - Totò, perché non vai fuori a divagarti un po’? 
- Mamma - aveva egli risposto con sapienza superiore all’età - mamma fuori ci sono tanti ragazzi cattivi, che dicono brutte parole; che farei con loro? -  
Adesso starà in un luogo sicuro. Avrà i suoi giuochi, i suoi divertimenti, le sue passeggiate; ma si troverà nella casa del Signore, dove tutti studiano per servirlo ed amarlo, dove tutto cospira a radicare nei giovinetti la grazia della vocazione e a meglio apprezzarla. 
Il dispiacere dunque di lasciare la famiglia e il caro nido dove era nato e dove aveva amato Dio e tutto ciò che lo circondava, veniva compensato e superato dall’ineffabile godimento di vedere avverato il sogno tormentoso del suo piccolo cuore. 
In verità egli non scrisse Diario nei due anni di seminario. Ma se l’avesse fatto, dovremmo leggere di sicuro poche pagine soffuse di tenerezza, di riconoscenza, di gioie ineffabili nel vedersi protetto da quelle mura sante, nel trovarsi fra tanti fratellini degli stessi sentimenti e mossi dal medesimo intento. 
Atteso lo studio saltuario e insufficiente compito in Mazzarino sua patria, si temeva in Gela che all’esame per l’ammissione regolare al 3° ginnasio non avrebbe dato buoni risultati. Invece Totò corrispose tanto bene, da lasciare sorpresi un po’ tutti. 
All’infuori d’una corrispondenza molto puntuale allo studio, alla pietà, al regolamento e alle norme che reggevano la disciplina di quel luogo, non troviamo molte cose da notare dei due anni che vi dimorò. 
Nello studio fu sempre dei primi o il primo, a testimonianza di tutti, compagni e superiori. Venne punito una sola volta, per un atto di carità. Il regolamento proibiva di fare i compiti agli altri o prestare i propri per avvalersene. Totò ch’era buono con tutti, talora cedeva alla pressioni, aiutando i meno intelligenti, e talora anche prestando i suoi scritti. Una volta venne scoperto. Il Direttore allora disse: - Avevo stabilito di rimandare a casa il primo che fosse per trasgredire questo punto; ma poiché Totò Scebba ha mantenuto sempre condotta irreprensibile, gl’infliggo la sola punizione di mangiare per tre volte in terra a pane e acqua. - 
Questa punizione la sentì abbastanza, tanto che gli vennero le lacrime agli occhi; ma non disse mai una parola né fece lamento con nessuno. 
Un altro fatto fu rivelato di quel tempo. 
Sin da bambino aveva egli nutrito il desiderio e l’anelito per le Missioni estere. Forse ne aveva inteso parlare, e probabilmente avrà letto anche dei libri. Il fatto si è che alimentava in petto il desiderio di rendersi un giorno anch’egli missionario e andare in terre lontane a predicare il Vangelo. 
Una volta che i suoi genitori andarono a visitarlo in Gela ( ed egli ci teneva tanto a rivederli ), si parlò in famiglia, di parenti e naturalmente del suo avvenire. Allora gli disse deciso: 
- Spero che Dio mi dia la grazia di divenire sacerdote e buon predicatore, perché mia volontà d’andare alle missioni. 
- Figlio mio - interruppe allora la madre - che dici? Ti potrebbero ammazzare gli indigeni! 
- Difenderò anch’io la fede - egli rispose - e se sarà possibile, darò la mia vita.
La cocente aspirazione al sacerdozio stava dunque legata a quelle Missioni lontane, ed era sì forte fin d’allora, da fargli facilmente superare l’attaccamento alla famiglia, molto radicato nel suo cuore. Soleva parlarne sovente, ed era sì espressivo nelle parole, da destare ammirazione. La mamma sua ha scritto: << Quant’era espressivo nel parlare delle Missioni, e come sempre ne discorreva con entusiasmo! >>. 

(1) Gino Longo, da Leonforte.
(2) Fu un giovinetto discolissimo, che a 15 anni si convertì, entrò nel seminario di Palermo e quindi tra i Cappuccini, morendo poi da santo nel Noviziato di Sortino nel 1886. C’è la vita stampata ed è in corso il Processo di Beatificazione.

 
FONTE: PADRE SAMUELE CULTRERA - MODELLO DI NOVIZIO FRA CANDIDO MARIA DA MAZZARINO CAPPUCCINO SCUOLA SALESIANA DEL LIBRO ROMA 1944 - VIA TUSCOLANA 361 


LAUS  DEO

Pax et Bonum


Francesco di Santa Maria di Gesù
Terziario Francescano